Rubrica I parte: Gaspare Nevola, L’ineffabile infodemia. Polittico sulla società dell’informazione

Gaspare Nevola è professore ordinario di Scienza politica all’Università di Trento. Laureato in Filosofia all’Università di Torino.

Premessa sul concetto di informazione: una definizione

Oggi viene correntemente sostenuto che viviamo in gran parte immersi in un’enorme e vorticosa massa di informazioni, più che in ogni altra epoca del passato. Se prendiamo per buono questo ritratto della società in cui viviamo, la situazione così dipinta, come un po’ tutti riconoscono, ha una serie di risvolti positivi, utili e graditi. Nondimeno, detta circostanza è anche generatrice o amplificatrice di problemi: per un verso, rende difficile identificare le “informazioni che contano” (quelle rilevanti o significative); per un altro verso, rende complicato distinguere le informazioni di “specchiata qualità”, accurate e ben vagliate dalle così dette “informazioni spazzatura”. Insomma: informazioni che contano e di specchiata qualità, dicerie, fandonie e rumors, per così dire, viaggiano insieme e spesso sullo stesso treno rubano l’un l’altra il posto a sedere. Ma che cos’è l’informazione? O meglio: come possiamo definirla?

Non è facile definire con poche parole cosa significhi “informazione”. Il termine deriva dal verbo latino in-formare, vale a dire “dare forma alla mente”, “mettere in forma qualcosa”, mettere in ordine. Insomma, si riferisce al modo in cui facciamo conoscenza, ovvero prendiamo contezza delle cose che incontriamo nel mondo e le “discipliniamo” (verbo ereditato dal latino discere, imparare). Detto in altri termini, le informazioni sono tali in quanto ci mettono a conoscenza delle “cose presenti nel mondo” (eventi, situazioni, fenomeni, problemi). Le informazioni riguardano la sfera della natura e quella della vita collettiva e individuale delle persone che vivono nella società, e riguardano altresì il fatto che danno conto e ci aggiornano sullo “stato dell’arte” nei più disparati settori dei “campi del sapere” (scienza, conoscenze specialistiche, tecnologie, arti).

Per quanto a taluno possa risultare assai vaga o generale, e addirittura troppo generica, ritengo che questa definizione sia la migliore per identificare a colpo d’occhio, per denotare e connotare l’oggetto appellato informazione. E, come emergerà via via da quanto qui sosterrò, la ritengo una definizione più pregnante di altre a cui oggi si fa correntemente riferimento e che dal mio punto di vista si rivelano essere non poco problematiche: penso, ad esempio alle definizioni elaborate nel campo dell’informatica o dell’economia, che a prima vista sembrano più precise e univoche, ma che se considerate con attenzione risultano piuttosto elusive (tanto nella denotazione, quanto nella connotazione del fenomeno “informazione”).

In questa sede, sulla base della definizione di matrice etimologica sopra introdotta, propongo la seguente definizione teorica e formale di informazione: l’informazione è un elemento costitutivo del processo di percezione tramite il quale un soggetto percepisce e ha conoscenza delle “cose del mondo” (siano queste un oggetto o un altro soggetto), ovvero percepisce e conosce una qualche cosa intesa come un dato (ciò che esiste, che è in essere) oppure come un costrutto (ciò che è creato, che è posto in essere). Così definita, l’informazione ha due facce: quella del suo contenuto e quella della sua trasmissione (circolazione) attraverso i quali si ha conoscenza del mondo o di segmenti del mondo.

Se sul piano analitico l’informazione può essere separata da altri aspetti della conoscenza delle “cose del mondo” (descrizioni, idee, concetti, opinioni, valutazioni, giudizi), sul piano empirico e fenomenologico una tale distinzione resta comunque problematica, se non impossibile, poiché ciò che chiamiamo informazione vive nel mondo con-fusa con essi.

Pannello I: Signore e signori, ecco a voi l’infodemia

L’infodemia è un aspetto non banale di un’epoca, come la nostra, in cerca di una bussola per orientarsi nel mare aperto dell’informazione. Il termine infodemia viene riferito a un’abbondanza o eccesso di informazioni che circolano nei canali della comunicazione sociale, e che sono comunemente ritenute sprovviste di vaglio critico o decontestualizzate, al punto che soddisfare l’esigenza di “separare il grano dal loglio” (le informazioni accurate da quelle inaccurate) non è cosa a portata di mano. Da qui il rilievo assunto, ad esempio, dal così detto fact-checking, la “verifica dei fatti”, una tecnica peraltro problematica o ingenua proprio per il metro di misura con cui essa definisce la “buona informazione”: ossia “il fatto”.

Infodemia è un neologismo che si è imposto all’attenzione pubblica, fino a entrare rapidamente nel linguaggio corrente, a partire dal 2020, quando l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel dichiarare lo stato di pandemia da Covid-19, utilizzò il termine per riferirsi a una “epidemia da informazione”, dove il virus contagioso e pericoloso è rappresentato da una sorta di overdose di informazione, spesso di cattiva qualità o scriteriata. Il conio del termine sarebbe da attribuire a David J. Rothkopf, che in un articolo dell’11 maggio 2003, comparso sul Washington Post, parla di un’epidemia informativa (ovvero “infodemia”) che si sovrappone all’epidemia da SARS. Il termine oggi ricorre nei documenti ufficiali dell’OMS, come in quelli dell’Unione Europea. Il fenomeno è persino diventato l’oggetto di studio che qualifica una nuova scienza, l’infodemiologia, in analogia con l’epidemiologia che si occupa della diffusione dei virus biologici: vale a dire, una scienza che studia la circolazione e l’eccesso di informazioni come se fossero virus che contagiano “i cittadini che si informano”, scatenando malattie collettive che colpiscono la società.

Correntemente si ritiene che l’infodemia acceleri la sua diffusione in situazioni critiche e di emergenza, quando crescono gli stati di ansietà delle persone e le paure collettive. In situazioni del genere, l’impatto psicologico, sociale e politico del fenomeno infodemico, comunque lo si voglia valutare, diventa tale da compromettere e destabilizzare il tessuto delle relazioni sociali delle persone, il normale funzionamento della società e il suo governo da parte delle istituzioni pubbliche; in tale situazione, l’infodemia arriva a mettere in discussione o a danneggiare pure la reputazione di scienziati ed esperti, i quali faticano a offrire alla società risposte efficaci o convincenti sull’uno o l’altro problema, provocando con ciò insicurezze tanto più profonde quanto più il problema è considerato pericoloso.

L’infodemia può a buon diritto essere considerata figlia della società dell’informazione. Pertanto, al fine di meglio comprendere la natura dell’infodemia e la sua profondità storico-sociale, è opportuno collocare il fenomeno nel contesto di alcune importanti trasformazioni che hanno attraversato la società contemporanea nel corso degli ultimi decenni, e che trovano sintesi proprio nella così detta società dell’informazione.

Teniamo perciò presente, fin da ora, che il problema dell’infodemia, trovando le sue radici nella società dell’informazione, ha alle spalle già mezzo secolo di storia e di sviluppi che ne tratteggiano i caratteri principali. I lineamenti dell’infodemia sono cioè profondi e “strutturali”. Vale a dire: essi vanno ben oltre l’uso che si è fatto del termine (in modo piuttosto superficiale, spesso polemico e contingente) nel clima dell’allarme pandemico virale a cui il termine deve il suo recente successo. Ciò detto, l’odierna grande attenzione prestata all’infodemia si spiega con il fatto che in occasione della pandemia virale dichiarata dall’OMS nel 2020, nel contesto di una crisi e di uno smarrimento psicologico, esistenziale e sociale legato all’emergenza virale, si è certo avuta una diffusa circolazione mediatica (tramite canali tradizionali e nuovi, grandi e piccoli, “ortodossi” o “eterodossi”) di una grande mole sia di informazioni di varia o incerta affidabilità, sia di opinioni spesso contrastanti e controverse o incontrollate (ad esempio, in merito al Covid-19, in merito alle sue origini, alle modalità del contagio e delle misure per contrastarlo, in merito al “vaccino” o alla sua obbligatorietà). L’infodemia, in questo caso, si è associata al fatto che le informazioni, le opinioni e le valutazioni sui vari aspetti della crisi pandemica non erano corredate da sufficienti o adeguate evidenze empiriche, né da dati epidemici e/o laboratoriali pubblicamente controllabili e scientificamente ben definiti ed esaminati. La qualità controversa e divisiva di tali informazioni e valutazioni su molteplici aspetti della “crisi virale”, ha caratterizzato ogni livello della società: il mondo degli esperti del settore medico-scientifico e della loro comunicazione pubblica; il mondo della politica e delle sue decisioni istituzionali; il mondo dei mass media tradizionali (giornali, tv, radio) e nuovi (social, blogger), inclusi i canali di “informazione alternativa”; il mondo della vita quotidiana e dei discorsi del cittadino comune.

Il 5 maggio 2023, l’OMS ha ufficialmente dichiarato la “fine della pandemia”. Siamo però ben lungi dal registrare che, per ciò stesso, abbiano avuto termine l’infodemia e la “caccia all’infodemia”, sulle quali oggi si richiama l’attenzione riguardo ad altri temi di interesse pubblico (ad esempio: crisi geopolitiche internazionali, la guerra russo-ucraina che coinvolge tutto l’Occidente e L’Europa stessa, crisi ambientale, cambiamento climatico, manipolazione genetica, Intelligenza Artificiale, “carne sintetica”, “farina di insetti” ecc.), temi che talora sono all’ordine del giorno da ben prima dell’emergenza “covidiana”. Diciamolo, quindi, in modo esplicito: Il problema dell’infodemia continuerà a porsi anche dopo il regno del Covid, come peraltro progressivamente era andato ponendosi già prima. Che piaccia o meno, per un motivo o l’altro, il tema dell’infodemia e della “cura dell’infodemia” è entrato nell’agenda pubblica: quella del dibattito culturale, mediatico e sociale, quella delle autorità istituzionali e dei Big Media. E proprio per questo è opportuno che il fenomeno dell’infodemia sia messo a fuoco collocandolo in una prospettiva di ampio respiro temporale, sociale e culturale. Sopra ho già notato che l’infodemia è figlia della nostra società dell’informazione. Perché? E cosa significa mettere la questione sotto questa luce?

Pannello II: La società dell’informazione

L’infodemia fa riflettere sulla “società dell’informazione”. L’infodemia è un effetto sociale della società dell’informazione, con la quale tendiamo a qualificare salienti caratteri della società del nostro tempo.

Il concetto di società dell’informazione si riferisce a quel tipo di società che nella seconda metà del Novecento ha visto progressivamente un’estensione territoriale e sociale delle reti infrastrutturali urbane, un ampliamento del ceto medio, una crescita dei livelli di istruzione e che, in ultimo, ha reso disponibile un po’ a tutti (ma non a tutti né a tutti allo stesso modo o con la stessa efficacia) quelle tecnologie che rendono possibile la produzione, l’accesso e la condivisione di un gran numero di informazioni. Le tecnologie informatiche (internet e pc connessi alla rete) e comunicative (ad esempio, social network e blog) hanno comportato: 1) un allargamento dell’utilizzo, passivo e attivo, degli strumenti e dei contenuti delle reti informatico-comunicative a una massa crescente di singoli individui e a gruppi più o meno organizzati, che un tempo ne erano esclusi o marginali; 2) il venir meno del monopolio delle informazioni e dei mezzi di informazione e comunicazione da parte delle istituzioni politico-amministrative e delle grandi imprese; 3) una reazione da parte delle imprese di Big Tech e delle autorità pubbliche, in senso regolamentativo o legislativo, di fronte al processo di liberalizzazione nel campo della libera circolazione delle informazioni – ad esempio attraverso tecniche quali espulsione, sospensione o “invisibilizzazione” di taluni soggetti attivi nei circuiti della comunicazione pubblica e nelle reti social, come pure attraverso tecniche quali screditamento o delegittimazione di taluni contenuti informativi e d’opinione volta a volta etichettati come fake news, hate speech, “politicamente scorretti”, complottisti, negazionisti ecc. Entrambe le tecniche ci pongono dinnanzi a nuovi scenari e a più sottili problemi inerenti le pratiche e le logiche dell’info-censura: scenari e problemi che, pur non essendo del tutti inediti, nello specifico si presentano con tratti peculiari della società dell’informazione. A questi scenari e problemi, da un’altra angolatura, si affiancano quelli che delineano uno scenario che solo apparentemente è paradossale: una società dell’informazione che si sviluppa in simbiosi con una “società della sorveglianza”.

Il tema della società dell’informazione è stato introdotto e trattato negli studi sociologici e politologici che, già a partire dagli anni ’60-70 del Novecento, offrono analisi sfaccettate sulle trasformazioni delle società sviluppate dell’Occidente. In quel contesto viene messo in risalto l’emergere di un nuovo tipo di società: una società caratterizzata proprio dalla “ricchezza dell’informazione”. Dopo la società agricola e la società industriale, nel contesto di una “società post-industriale” (ossia la società centrata sui servizi, sul tempo libero e sui consumi di massa), a prendere forma è la nostra società dell’informazione o, come viene altrimenti declinata, la società del “capitalismo dell’informazione”: una società basata sulla e veicolata dalla rivoluzione tecno-informatica e delle telecomunicazioni. La società dell’informazione, come già anticipato, vede un ruolo centrale della conoscenza, di una conoscenza socialmente diffusa e sostenuta da una crescita dei livelli di istruzione di massa. Secondo il sociologo americano Daniel Bell, pioniere nel tratteggiare il profilo della nuova società emergente, le risorse della conoscenza e dell’informazione diventano risorse strategiche primarie per lo sviluppo della società e prendono il ruolo un tempo svolto dalla risorsa-lavoro e dalla risorsa-capitale: tanto in ambito strettamente economico-produttivo, quanto in quello sociale più in generale. Negli stessi anni, all’immagine tendenzialmente armonica della società dell’informazione delineata da Bell, si affianca quella del sociologo francese Alain Touraine, che mette invece in risalto i nuovi conflitti sociali che la accompagnano, dove la posta in gioco sono la distribuzione e il controllo proprio delle conoscenze e delle informazioni. I poli di questo nuovo conflitto sociale vedono contrapporsi, da un lato, il ceto dei tecnocrati che orbitano intorno agli apparati di governo e della grande impresa; dall’altro lato, una massa eterogenea e frammentata di cittadini comuni.

In tale quadro socio-politico e culturale, ben presto prende profilo un problema critico per la qualità democratica di quella che, parafrasando Popper, potremmo chiamare la “società aperta dell’informazione”. Sintetizzo il nocciolo del problema con un semplice interrogativo: chi controlla o dovrebbe controllare i messaggi, le conoscenze e i loro contenuti informativi e connesse opinioni? Il problema non va rimosso. Men che meno oggi, quando si tende a considerare l’infodemia come una malattia sociale epidemica e si rimarca la necessità di porvi rimedio tramite mobilitazioni dell’opinione di massa e misure regolamentative o legislative dirette contro una varietà di fenomeni e orientamenti culturali che sono visti imperversare nella sfera della comunicazione pubblica o dell’informazione mediatizzata, e che sono solitamente stigmatizzati con etichette quali “anarchismo incontrollato e dannoso” o “libertà a briglie sciolte” nella sfera della comunicazione pubblica o dell’informazione mediatizzata. Detto diversamente, nemmeno la “società aperta dell’informazione” sfugge al pervasivo e storicamente cangiante fenomeno del potere, e ciò nella misura in cui le dinamiche del potere si trasferiscono (in non piccola parte) nel campo del controllo dell’accesso alle reti e in quello della gestione/incanalamento dei flussi informativi.

Negli anni ’70 e fino a circa una decina di anni fa, nella società dell’informazione il problema del controllo e delle barriere riguardanti la libera circolazione dell’informazione era affrontato con senso critico. Ogni idea di “misure terapeutiche” contro l’eccesso di varietà delle informazioni e che si dicevano essere tese a proteggere la libera circolazione della “buona informazione” ostacolando quella “cattiva”, suscitava reazioni preoccupate: molti intellettuali e ambienti sociali e culturali ritenevano e temevano che provvedimenti del genere sarebbero facilmente sfociati in un dominio sulla società da parte di coloro che disponevano dei mezzi (economici, politici, culturali) per esercitare forme di “controllo terapeutico” della malattia infodemica, ovvero da parte di coloro ai quali venisse delegata una tale funzione. Oggi tale sensibilità critica rispetto al problema del controllo dell’informazione appare non poco appannata: basti solo osservare la posizione tenuta al riguardo dalle forze politiche, dalle istituzioni pubbliche nazionali (governi e parlamenti), dall’Unione Europea, dai grandi organi di stampa e mass media, da intellettuali e accademici, dalla maggioranza (silenziosa o meno) dei cittadini. Nondimeno il problema persiste. Anzi: è divenuto ancora più delicato, tanto che dovrebbe suscitare preoccupazioni ancora più serie. Oggi più di ieri, l’interrogativo “Chi controlla o dovrebbe controllare i contenuti informativi dei messaggi e le opinioni in circolazione nello spazio mediatico?” trascina con sé numerose, diverse e intricate questioni che richiedono costante attenzione. Mi limito a richiamarne sommariamente un paio.

In primo luogo, esercitare forme di controllo e di selezione sulla qualità delle informazioni dette in libera circolazione comporta qualcosa di più profondo di quanto comunemente si pensa: tali forme di controllo e selezione toccano infatti la formazione delle opinioni e dei giudizi, incidono sui comportamenti e sulle scelte del cittadino (che le informazioni contribuiscono a nutrire). Indipendentemente dalle buone intenzioni con cui si motiva l’obiettivo di espandere i controlli sulle informazioni e sulle connesse opinioni, l’effetto è lesivo delle libertà di pensiero, di opinione e di parola per come tali libertà sono definite e celebrate dalla cultura politica, dalle società e dalle istituzioni che identifichiamo essere di tipo democratico. In secondo luogo, non è affatto cosa semplice e incontroversa, come invece può sembrare, stabilire cosa sia o quale sia l’informazione “spazzatura” o “distorta”. Del resto, sebbene quando si discute di temi quali quelli della società dell’informazione o infodemia spesso non vi si faccia riferimento, né la prima né la seconda questione sono estranee al tema delle (molteplici) facce del potere, della conoscenza e della libertà. Come ben sapevano gli antichi: sapere le cose del mondo è potere sul mondo (potere è sapere), così come lo è “definire il mondo”, ovvero definire cosa è buona o cattiva informazione. È su tali ingombranti e sfuggenti ma essenziali questioni che si gioca il destino della libertà in una società dell’informazione che oggi tende a essere diagnosticata come afflitta da infodemia.

Pannello III: Tra infodemia e infopenia

Il passaggio all’informazione digitale è stato un passaggio decisivo per lo sviluppo e il compimento della società dell’informazione. Ha comportato una “rivoluzione silenziosa” (culturale e sociale): un cambiamento tanto importante da essere paragonabile a quello dell’avvento della macchina a stampa, e i cui effetti politici sono tuttora in pieno svolgimento e da decifrare fino in fondo. Nella nostra epoca contrassegnata dall’informazione e dalla circolazione digitale delle opinioni e dei contenuti del sapere, si dice (e non a torto), che è cambiato significativamente tutto il mondo della conoscenza: la diffusione, la qualità, la quantità di conoscenze disponibili, i tipi, le modalità e la consistenza del conoscere. Oggi, la conoscenza, l’informarsi e il farsi un’opinione su un’enorme varietà di campi si caratterizza per una combinazione unica di proprietà mai avutesi prima. Le informazioni, ad esempio, possono viaggiare per il mondo alla velocità della luce; possono essere conservate in spazi piccolissimi senza spesso subire danni irreparabili; possono essere copiate e trasmesse facilmente, con perfetta fedeltà e a costi irrisori; quale che sia la loro natura d’origine (cartacea, video, audio), possono essere trattate ed elaborate da un computer minimamente sofisticato.

Queste proprietà rafforzano l’assimilazione dell’informazione digitale e delle modalità della sua circolazione a un virus che opera nella mente delle persone e dell’intera società: un virus che può diffondersi e arrivare con incredibile velocità pressoché in ogni angolo del mondo e della vita quotidiana, al punto da risultare difficilmente arrestabile. Per gli stessi motivi, le proprietà di internet possono anche trasformare l’informazione digitale in un agente patogeno quanto mai potente e contagioso.

La “patologia dell’informazione” in tempi di infodemia rappresenta, in effetti, l’altra faccia della società dell’informazione. Intanto in quanto con il digitale l’informazione ha visto mutare la sua condizione economica: da bene scarso e perciò prezioso quale era in altre epoche è diventato un bene apparentemente abbondante (persino inflazionato). Una società, quella digitale, dove l’informazione si lascia alle spalle il regno della scarsità e fa ingresso nel regno dell’abbondanza che sarebbe forse apprezzato persino da Platone e dai fervidi paladini dell’Illuminismo radioso disegnato nell’Età dei Lumi. Nondimeno, per altri aspetti, oggi l’abbondanza di informazioni in circolazione pare aver generato una sorta di svalutazione dell’informazione circolante: una perdita del suo valore positivo e una messa in guardia contro la sua libera circolazione. Da qui il carattere paradossale dell’allarme infodemico che revoca l’apprezzamento della libera e abbondante informazione associata alla società dell’informazione digitalizzata.

Sull’immagine aurea e luminosa della società dell’informazione digitalizzata, che qualifica questa come caratterizzata da informazione abbondante, ricca e in libera circolazione, oggi, a ben vedere, esistono (al di là di talune sfumature anche significative) due principali orientamenti critici, che di seguito sintetizzo e stilizzo a grandi linee.

I due orientamenti, pur convergendo nella critica, sono tuttavia espressione di due generali posizioni politico-culturali (ossia ideologie o culture politiche) differenti, persino contrapposte; inoltre, più in specifico, essi identificano motivi apparentemente divergenti quanto alla critica dell’immagine ottimistica della società dell’informazione, motivi che in un caso chiamano in causa l’infodemia e nell’altro quella che chiamo infopenia.

Sul piano generale, ideologico e politico, il primo orientamento si pone a difesa degli assetti politici, ideologico-culturali e socio-economici di tipo neo-liberale, neo-capitalistico e tecno-amministrativo su cui si reggono le “democrazie del nostro tempo”, mentre il secondo sottolinea i profondi difetti di tali assetti e considera le società occidentali al più delle postdemocrazie se non poco più che democrazie di facciata, pseudo-democrazie, para-democrazie ovvero democrazie più di nome che di fatto. Per comodità espositiva etichetto il primo come “orientamento pro-sistema”, vale a dire ispirato nel complesso al mantenimento dei caratteri e degli equilibri del sistema (sociale) esistente; il secondo lo etichetto come “orientamento anti-sistema”, ossia che contesta il sistema (sociale) costituito, auspicando e reclamando il suo superamento o cambiamento a favore di un altro sistema (sociale) che incarni meglio (di fatto e non solo sulla carta) quei valori che associamo alla democrazia liberale, quei valori che sono ritenuti ormai traditi o sfigurati (libertà, eguaglianza, giustizia, pluralismo, legittimità del dissenso, tutela delle minoranze).

Sul piano più specifico, come ho già osservato poco sopra, entrambi gli orientamenti criticano l’immagine originaria della società dell’informazione, benché si contrappongano l’uno all’altro quanto agli argomenti e alle diagnosi riguardanti lo stato dell’informazione nella società di oggi. Semplificando un po’ la modulazione che assumono all’interno di ciascun orientamento, i loro argomenti e le loro diagnosi critiche possono essere così riassunti: il primo orientamento vede nella nostra società dell’informazione digitalizzata un eccesso di informazione che porta alla patologia dell’infodemia; il secondo orientamento vi scorge invece un serio difetto di informazione che porta a una patologia opposta che denomino infopenia.

Il primo orientamento trova espressione nel fatto che in molte sfere della vita collettiva i soggetti “centrali” o egemonici nel sistema esistente (autorità pubbliche, potentati privati, circuiti dell’opinione pubblica e cittadini comuni) lanciano crescenti allarmi contro l’infodemia intesa come patologia e una crescente domanda di una cura della malattia tesa a porre un freno all’abbondanza e alla libera circolazione dell’informazione.

Il secondo orientamento trova espressione nel fatto che in molte sfere della vita collettiva (culturale, economica, politica) le contro-élite e i soggetti “periferici” del sistema esistente criticano o negano che la nostra società dell’informazione digitalizzata sia una società dell’abbondanza di informazioni e della loro libera circolazione. Su queste basi si ritiene e si rileva, piuttosto, che la società dell’informazione non sia affatto degenerata in società dell’infodemia quanto, semmai, in quella che ho sopra chiamato società dell’infopenia, dove il problema non è costituito dall’eccesso (smisurato rispetto al passato) di informazioni e, perciò, dalla necessità di curare con misure regolative e di controllo la sindrome virale infodemica (che non esiste), bensì dall’esiguità e dalla povertà delle informazioni oggi disponibili o in circolazione (la sindrome dell’infopenia, appunto). Considerata con gli occhi di questo secondo orientamento, l’informazione abbondante e in circolazione, di cui tanto si sente parlare, spesso non è altro che pseudo-informazione e pseudo-abbondanza, e perciò, come direbbero gli economisti, la “cattiva moneta caccia via la buona moneta”, producendo una svalutazione della moneta circolante (ovvero dell’informazione circolante).

Entrambi gli orientamenti, insomma, mettono in evidenza due situazioni regressive o scolorite rispetto a quanto è tende a suggerire o promettere l’immagine della società dell’informazione e della conoscenza. Entrambi ritraggono una società dove, per così dire, aleggia o addirittura la fa da padrone, il ritorno del fantasma dell’oscurantismo, o di un neo-oscurantismo. In entrambi i casi si denuncia un oscurarsi della nostra conoscenza del “mondo delle cose”: ma nel primo caso lo si ritiene causato dalla diffusione e grande disponibilità di informazione, nel secondo caso lo si ritiene causato non già dalla ricchezza o eccesso di informazione bensì dal persistere, di fatto, di una condizione di povertà e difetto di informazione.

A ben considerare, tuttavia, mentre entrambi gli orientamenti nelle loro tesi e nel loro confronto divergono sul tema della quantità dell’informazione, il problema che invero sollevano è quello della qualità dell’informazione. I due orientamenti tendono inoltre a contrapporsi nell’individuazione dei soggetti, degli attori, dei luoghi ritenuti responsabili della cattiva qualità dell’informazione in circolazione; e quindi tendono altresì a divergere riguardo alla natura delle misure necessarie o utili per affrontare il problema e cercare di porvi rimedio. Qui, en passant, mi limito a marcare il fatto che, in tema di cattiva qualità e povertà dell’informazione in circolazione, il secondo orientamento, a differenza del primo, attribuisce grande responsabilità (anche, se non soprattutto) alle istituzioni politiche (nazionali, internazionali e sovranazionali), ai grandi e accreditati organi di informazione e di comunicazione, alla grande industria dei mass media (tradizionali e digitali), per via del fatto che questi dispongono di ingenti e potenti risorse. Questa rete di soggetti è considerata responsabile primaria del fatto che ciò viene comunemente chiamata informazione si dissolve spesso in una serie ripetitiva e ridondante di messaggi ad effetto, slogan, sollecitazioni emotive, “scatole informative” prive o povere di contenuto effettivamente informativo. Quella che per il secondo orientamento è vera e propria informazione si perde o si mescola in un mare di rumors che non aggiungono davvero informazioni e conoscenze sulle “cose del mondo”, ma piuttosto confondono, sottraggono o manipolano le informazioni su “come stanno le cose del mondo”. E tuttavia è bene notare che è proprio di questa pseudo-informazione che spesso si nutrono coloro che si informano (i così detti “cittadini informati”, persino “bene informati”, l’opinione pubblica istruita e colta). In una società dell’informazione così ritratta, riassumendo le conclusioni a cui perviene il secondo orientamento, l’informazione degna di questo nome, “se c’è, è difficile da trovare, se non introvabile”.

NOTA: Ringrazio Gilda Fusco con la quale ho avuto modo di discutere (animosamente) una precedente versione di questo contributo e che mi ha indotto a correggere o rivedere alcuni passaggi poco chiari o che talora andavano fuori strada. Resta sulle mie spalle la responsabilità per le idee e il libero pensiero che qui mi è riuscito di esprimere. Ma anche dei loro limiti.