Gaspare Nevola è professore ordinario di Scienza politica all’Università di Trento. Laureato in Filosofia all’Università di Torino.

Pannello IV: L’informazione digitale: una rivoluzione epocale in chiaroscuro

Se osserviamo oggi la società dell’informazione tenendo conto dei due orientamenti critici sopra tratteggiati, quale che sia in giudizio di valore di ciascuno sulle loro rispettive tesi, possiamo fare emergere fenomeni rilevanti che tendono a sfuggire all’attenzione dei più. Mi riferisco, in particolare, a un complesso di tendenze, atteggiamenti e comportamenti da parte di una consistente parte di persone (spesso giovani e/o con elevate credenziali educative, ma non solo queste): tendenze, atteggiamenti e comportamenti che segnalano una certa perdita di interesse (addirittura di desiderio) a informarsi o a fare i conti con il problema della qualità dell’informazione. Per un verso, troviamo chi è frustrato dalla povertà dell’informazione in circolazione (che incarna il fenomeno dell’exit informativo, ovvero dell’abbandono delle pratiche informative); per l’altro, chi è incline a lasciarsi cullare dall’assuefazione o anestetizzazione delle informazioni circolanti (che incarna il fenomeno del conformismo informativo, ovvero della routinizzazione delle pratiche informative). Per meglio cogliere e approfondire il senso di questi fenomeni odierni è necessario tornare brevemente a volgere lo sguardo all’informazione digitalizzata.

Lo stesso tema dell’infodemia si inscrive in questo articolato scenario e cela un problema cruciale che si riferisce soprattutto alla qualità (prima ancora che alla quantità) delle informazioni che circolano nella società dell’informazione digitalizzata.

La rivoluzione digitale ha mutato profondamente i modi in cui raccogliamo informazioni sul mondo, la quantità e qualità delle informazioni disponibili e circolanti nella società. Ma non è tutto. Nella società dell’informazione digitale si è avuto anche un cambiamento nel modo e nella possibilità di manomettere e alterare le informazioni che noi stessi o altri raccolgono e mettono in circolazione. Dato che, diversamente da quanto diamo per scontato (taken for granted), informazione, conoscenza, valutazione, opinione e giudizio sono fortemente intrecciati tra loro, è bene non sottovalutare la profonda e complessa portata dell’informazione digitale e la questione della sua qualità. È per questo che, non a caso, il tema dell’infodemia veicola anche (e soprattutto), lo ripeto, la questione della qualità delle informazioni: una questione ben più complicata e delicata di quella della quantità. Infatti, quando si parla di “pandemia informativa”, è opportuno sottolineare che non ci si riferisce alla circolazione contagiosa di un virus qualunque, “innocuo” o di per sé non dannoso, bensì a un virus patogeno e assai nocivo che lavora ad ampio raggio lungo tutto il processo della conoscenza, su tutti i meccanismi di quella “macchina” individuale e collettiva che porta le persone e la società a “sapere le cose del mondo”. Non dobbiamo infatti dimenticare che, come chiarito con la definizione formulata in apertura, “informazione” deriva dal latino: dal sostantivo informatio e dal verbo informare, il quale significa “dare forma (alla mente)”, “mettere in ordine”, “disciplinare”, “istruire”, “insegnare”. L’informazione, cioè, è qualcosa che riguarda (tiene insieme) l’intero processo conoscitivo e tutti i meccanismi che ci portano a “sapere le cose del mondo”. I meccanismi che entrano qui in gioco sono molti, diversi e sebbene siano analiticamente distinguibili, a livello empirico restano tuttavia fluidi e sfumano l’uno nell’altro: sono tanto le descrizioni del come stanno le cose del mondo quanto le spiegazioni del perché esse stiano in un modo o nell’altro, tanto le valutazioni tecniche quanto i giudizi politici e morali sulle cose del mondo e sulla preferibilità di alcune cose e non altre. Da tutto questo possiamo intuitivamente cogliere la delicatezza e la complessità sia della questione della manipolazione dell’informazione, sia della questione dello scadimento della sua qualità. La rilevanza del tema dell’infodemia e dei rimedi da opporvi fa leva su tutto questo.

Manipolare in modo sistematico le informazioni, metterle rapidamente in circolazione su larga scala, fino a dare forma su larga scala a una “realtà alternativa” conforme alla manomissione informativa, è storicamente stata un’operazione che richiedeva risorse imponenti, grandi apparati organizzativi, complesse e sofisticate tecnologie, il controllo assoluto dei media e delle informazioni consumate dalle persone. Era, insomma, un’impresa di cui solo uno Stato con finalità e poteri “totalitari” poteva disporre: basti pensare alla potente, minuziosa e capillare organizzazione di quella società dell’informazione che George Orwell ha romanzato in 1984. Ebbene, grazie allo sviluppo e alla diffusione delle tecnologie informatico-comunicative, oggi un’impresa del genere, anche se in effetti non a portata di chiunque, è tuttavia almeno in linea di principio realizzabile (in una qualche misura) anche solo da una piccola organizzazione o da persone attrezzate e interessate a farlo.

L’allargamento delle possibilità di manipolazione dell’informazione produce un duplice esito. Da un lato, l’esito è quello di dare vita a una costruzione di “realtà multiple” e “realtà parallele”, a una sorta di “pluri-verso”, di sub-universi che premono sull’“uni-verso”. Dall’altro lato, l’esito è che nella nostra società dell’informazione digitalizzata (inclusa l’Intelligenza Artificiale) infuria una guerra (più o meno silenziosa) la cui posta in gioco (per un accresciuto numero di soggetti) è niente meno che la possibilità di definire “quale è” e “come è” la realtà, ovvero la possibilità di plasmare le identità e le relazioni sociali, nonché i comportamenti di ciascuno, la possibilità di manipolare e influenzare in profondità (in una direzione o l’altra) le credenze e l’agire dei membri di intere società. Sotto questo profilo, non è esagerato osservare che la società dell’informazione è attraversata e permeata da una “guerra dell’informazione” in cui le armi sono le informazioni e il controllo delle informazioni.

I conflitti intorno alle informazioni vedono protagonisti alcuni Golia (Stati, organizzazioni internazionali, grandi corporations economiche e mediatiche), ma anche miriadi di più o meno piccoli Davide (inclusi singoli cittadini). A quest’ultimo riguardo, pensiamo al fenomeno dei “blogger” (o anche più di recente degli “influencer”): ossia, quell’utente di Internet che tramite il suo sito web introduce nella rete e fa circolare informazioni, ma anche opinioni e idee, “fatti” e “voci” più o meno ponderati. È stato calcolato, ad esempio, che già una quindicina di anni fa 12 milioni di americani avevano aperto un blog (ancora di più in Giappone). Ben presto, in tutto il mondo, giornali ed emittenti radiotelevisive hanno preso l’abitudine di citare regolarmente, per un motivo o l’altro, i blog. Esistono, naturalmente, blogger “ortodossi” e blogger “eterodossi”. Tanto i primi quanto i secondi ritengono di essere o sono considerati taloradei citizens journalists. Ma quelli più eterodossi, i così detti operatori di controinformazione o di alter-informazione, non di rado sono stigmatizzati (dalla cultura e dall’opinione pubblica dominanti) come complottisti, diffusori di fake news, propagandisti o “manipolatori e falsificatori delle realtà”, ecc. Ciò detto, va tenuto presente che :1) oggi, forse più ancora che in passato, è fuorviante parlare di opinione pubblica al singolare, ed è più appropriato parlare dell’esistenza di “opinioni pubbliche”, al plurale; 2) l’odierna esistenza di molti Davide dell’informazione non deve indurre a ritenere che siano venute meno le diseguaglianze delle risorse e le dissimmetrie di potere tra i Davide e i Golia dell’informazione, né a immaginare che essi si fronteggino con pari possibilità di successo.

Pannello V: Vade retro infodemia? Il bambino e l’acqua sporca

Nella nostra epoca non sono mancati profeti e laudatori della società dell’informazione. L’hanno salutata e persino esaltata come l’avvento di un “mondo nuovo” e senza precedenti per l’umanità. Come un mondo di ricchezza quanto a libertà, informazioni e conoscenze, quanto a pluralismo, quanto ad autonomia e crescita della persona umana, quanto ad autoespressione dell’identità umana e civile che riposa dentro ciascuno. Di fronte a questo inedito Rinascimento tecnoumano si sottolinea, ad esempio, come un tempo eravamo chiusi e “presi in ostaggio” nel villaggio in cui si nasceva o si viveva; che in seguito siamo stati dipendenti dalla rete telefonica o dalla distribuzione territoriale dei giornali, dalla disponibilità di una biblioteca o di una libreria; e che oggi, invece, siamo (per lo più) interconnessi in maniera tale da poter facilmente comunicare e scambiare conoscenze con una quantità virtualmente enorme di persone e sulla base di una varietà di fonti informative. Il mondo, in effetti, pare essere diventato più piccolo e più a portata di mano. Riflettiamo un momento su questa immagine del mondo associata alla società dell’informazione. E cerchiamo di farlo senza scivolare in facili o edificanti retoriche.

Mettiamola così. È innegabile quanto nel nostro “mondo nuovo” l’informazione digitale rappresenti uno strumento straordinariamente potente, cioè uno strumento dotato di un grande e pervasivo potere. Ciò riconosciuto, tuttavia, nemmeno ai profeti e laudatori del nostro “Rinascimento digitale” sfugge (o dovrebbe sfuggire) il fatto che degli strumenti o mezzi informatico-digitali e del “potere-informazione” è possibile fare (come accade per ogni strumento/potere in ogni epoca) usi differenti, anche estremamente diversi tra loro, perseguendo finalità tanto discrepanti tra loro da risultare magari inaccettabili o intollerabili ora a una parte della società, ora all’altra. Stiamo toccando una questione sfaccettata e di grande rilievo, che articoliamo a grandi linee nei seguenti principali punti: 1) il tema del “cattivo uso” dell’informazione, degli strumenti e del potere informatico-digitali, sollevato dall’allarme sull’infodemia che compromette la qualità delle informazioni; 2) il tema dell’uso “partigiano” (cioè di parte) dell’informazione, del potere e dei mezzi di informazione, della loro strumentalizzazione rispetto ai fini apprezzati, desiderati e perseguiti dai diversi soggetti che si muovono nel campo delle culture politiche a cui si ispirano; 3) il tema della “libera e abbondante informazione” che tali strumenti e potere consentono di fare circolare nella beneamata società dell’informazione. Per lo più si è soliti affrontare tale triplice tema portando l’accento sul fatto che, immersi come siamo in questo mondo-informazione, dopotutto, non si tratta che di imparare a individuare, neutralizzare e debellare quella “cattiva informazione” che arriva a manipolare le nostre idee, le nostre valutazioni delle cose e di conseguenza le nostre scelte e i nostri comportamenti, che di informazioni si nutrono (anche attraverso fake news, manomissioni, deformazioni, ecc.). Ma attenzione: trattare il tema dell’informazione in questa chiave significa semplicemente eludere lo spinoso problema che si annida al suo interno, oppure cercare di risolverlo “a valle”, mentre esso si colloca “a monte” (e dove, perciò, resterebbe intoccato).

Pannello VI: Imparare a riconoscere le “buone informazioni”. Un’odissea

La questione in ultimo evidenziata presenta numerosi profili, che provo a richiamare dando conto di alcune salienti tappe di quella sorta di avventura “alla ricerca della buona informazione”.

1) Ciascuno di noi, nella gran parte delle circostanze della vita, in un qualche modo, per un motivo o l’altro si trova a muoversi o a orientarsi in settori di cui è privo di quelle conoscenze o del padroneggiamento di conoscenze che potrebbero permettergli di distinguere le informazioni buone e valide da quelle cattive o false che circolano in un dato settore: in fondo, nessuno è onnisciente”

2) Per chiarirci le idee, allora, tipicamente ci rivolgiamo agli esperti di settore: ma già questo passo, a ben considerare, comporta che per arrivare a comprendere come stanno le cose su una certa faccenda, di fatto, rinunciamo a quella che riteniamo la nostra autonomia di giudizio o la nostra individuale libertà (libero arbitrio o indipendenza di pensiero), fino al punto che per orientarci nel mondo, più che su noi stessi, facciamo riferimento a un’autorità “altra”.

3) Nel momento in cui chiediamo lumi (informazioni) all’autorità di chi è competente in materia, ci rendiamo conto che, invero, su ogni dato argomento ci troviamo a confrontarci non con un’autorità unica o univoca, bensì con l’esistenza di autorità molteplici, diverse e che ci danno risposte anche molto differenti tra loro.

4) Così, quando entra in scena la “scienza in persona” (i suoi operatori, gli esperti, i competenti titolati) ci rendiamo ben presto conto di una cosa di cui in effetti abbiamo già avuto modo di avere vivida esperienza nella vita quotidiana, senza aver bisogno di apprenderla dai libri di epistemologia o di scienza, ad esempio quando siamo coinvolti nei circuiti diagnostici o terapeutici su una malattia: ci rendiamo conto del fatto che la scienza (nel nostro esempio quella medica) è essa stessa divisa su questioni cruciali (quali quelle riguardanti le analisi, le diagnostiche, le terapie sullo stato di salute, sulla salvaguardia della vita o nell’evitare la morte). E così, dopo essere passati da un luminare all’altro, dopo esserci rivolti alle cliniche o agli ospedali meglio attrezzati e specializzati nel settore che ci interessa, non di rado arriviamo a sfiorare con mano quella che è una difficile sfida per la mentalità e per l’educazione scientifiche correnti: una sfida che disorienta e spaventa nella misura in cui la scienza, con tutta la sua potenza, diversamente da quanto tendiamo a pensare, non è il regno delle certezze o dell’“oggettività”, ma è invece essa stessa plurima, divisa, “strutturalmente limitata”.

5) In un quadro del genere, per il profano è un’impresa molto difficile, ed esposta a controversie i cui contenuti per lo più gli sfuggono, stabilire quale autorità scientifica sia attendibile e quale inattendibile; in altre parole, dare ascolto a un certo esperto o a un altro, a un luminare o all’altro, è essenzialmente una questione di fiducia.

Morale della favola: in generale, per chi si informa e cerca di scegliere tra le informazioni e le conoscenze provenienti persino da fonti dotate di autorità pubblicamente riconosciuta si tratta di fare affidamento sull’una o sull’altra autorità competente. Insomma, la questione che “a valle” viene trattata in termini di “cattiva” informazione o qualità della conoscenza, “a monte” rivela l’esistenza di un problema relativo alla mancata univocità/oggettività della conoscenza, inclusa quella scientifica e fornita dalle autorità epistemiche e dalle comunità di esperti, ossia proprio quelle autorità e comunità preposte a definire, vagliare, tutelare e diffondere la buona conoscenza non meno che le buone informazioni.

Tenendo presente le considerazioni fin qui fatte, possiamo fermare un paio di punti.

Primo. Nell’abbondante e varia messe di informazioni a cui ciascuno può (più o meno) accedere, spesso non è faccenda semplice, come parrebbe, stabilire quali informazioni siano degne di credito e quali invece no. Lo sforzo di distinguere le une dalle altre implica (come si è richiamato poco sopra) un articolato processo costellato di opacità, di incertezze e di molteplici meccanismi di selezione e di fattori di convalidazione delle informazioni e delle conoscenze: meccanismi e fattori dei quali non si ha sempre nemmeno adeguata consapevolezza.

Secondo. L’informazione digitale rende più facile accedere a informazioni, autorità o tecniche (relative a un settore o l’altro) non ufficialmente riconosciute. Di conseguenza diventa ancora più difficile l’intero processo informativo, poiché ci si trova a giostrarsi tra opzioni alternative a cui si ha accesso ma di cui non si è in grado di stabilire la “veridicità”, la “consistenza” o la “solidità”.

Pannello VII: Attenti con l’imperativo retorico del “curare l’infodemia”: il caso delle “spinte gentili”. Excursus su libertà e democrazia

La tradizione “liberale” della democrazia, oggi di gran moda nella cultura dominante e difesa a spada tratta nel mondo occidentale, sostiene, come fissato da John Stuart Mill, che il miglior giudice degli interessi e del benessere di un individuo è l’individuo stesso, se egli non soffre di condizioni di “minorità”. Le scienze del comportamento, evidenziando che gli esseri umani prendono decisioni spesso deleterie anche per se stessi, di fatto allargano e “normalizzano” lo status di “minorità” del cittadino delle società di massa.

Orientarsi nella vita e nelle scelte giuste esercitando la propria libertà di scelta, dicono i teorici delle “spinte gentili” (nudges), si rivela essere spesso cosa frustrante, faticosa e che espone se stessi o gli altri a pericoli: vuoi per la mancanza di informazioni adeguate, vuoi a causa di inganni, manipolazioni o errori di valutazione, si sbaglia strada.

Ma cosa sono le “spinte gentili”? Si tratta di una tecnica che mira a persuadere le persone e a orientare le loro scelte, talora gravose o gravide di conseguenze importanti per il singolo e per la collettività. Tale tecnica nata da una teoria al crocevia tra scienze del comportamento ed economia, scienze cognitive e della comunicazione, diritto, scienze sociali e filosofia politica. Il concetto di nudge è stato reso noto da Richard Thaler e Cass Sunstein. La “spinta gentile” che qui interessa è quella accreditata da autorità riconosciute, siano esse istituzioni politiche oppure organizzazioni private, le quali operano all’insegna della competenza e grazie alla macchina tecno-scientifica. Dopotutto, osservano gli “spingitori gentili”, l’individuo compie le proprie scelte all’interno di contesti comunque già dati e predefiniti: e l’ambiente condiziona sempre le scelte. Insomma, le nostre scelte avvengono all’interno di una “architettura delle scelte” e sono soggette a questa. L’“architettura delle scelte” non fa molti sconti alla libertà: possiamo insistere all’infinito sulla libertà di scelta, ma non possiamo tirarci fuori dall’architettura che avvolge e definisce le nostre scelte. Nel campo dei consumi, per esempio, è sempre all’opera una struttura (che sia la vetrina del negozio o una pagina online) dove alcuni articoli vengono visti prima, altri per ultimi e altri ancora restano defilati, non visti o non presenti. Ma è la stessa società nel suo complesso a essere ordinata secondo una struttura analoga a una vetrina, e per di più assai più sottile, pervasiva e insinuante. Neppure le scelte politiche (in senso lato) o quelle economiche o del lavoro, quelle valoriali, esistenziali o nella sfera della socialità sfuggono alla trama di “primi piani” e “sfondi”, di colori, accenti, accostamenti, luci e angolature, sussulti emotivi, distrazioni, suggestioni o “magie” che ora attraggono o respingono, ora confondono l’individuo alle prese con le sue scelte. Ma le “vetrine”, come sappiamo, non cadono dal cielo, e infatti ormai esistono sofisticati “architetti della scelta”, i “progettisti dell’ambiente sociale”: ad affermarlo e riconoscerlo sono autorevoli accademici, esperti, studiosi e scienziati, inclusa una varietà di personalità della cultura progressista, non persone più o meno ignoranti o disturbate, maniaci di dietrologie, complottisti e “negazionisti” di ogni risma.

Tutto questo vale anche a proposito delle scelte informative e per il complesso processo conoscitivo che vi è sotteso: scelte informative e processo conoscitivo che stanno alla base di ogni particolare scelta che facciamo in qualsivoglia ambito. Secondo Thaler e Sunstein, gli “architetti della scelta”, meglio se legittimati e regolati dalle istituzioni democratiche, possono aiutare le persone nelle loro libere scelte fornendo informazioni, valutazioni, pareri, suggerimenti che rimediano a tutti quei pregiudizi, manipolazioni, suggestioni fuorvianti, difetti di conoscenza e fattori accidentali che inducono non di rado a compiere scelte sbagliate: tali architetti, “gentilmente”, spingono verso una scelta anziché l’altra, verso quella che essi ritengono sia la scelta “razionale” e “giusta” per il benessere dei singoli individui e quindi della collettività, se solo le persone e la società nell’insieme accettano le “gentilezze” e ne fanno tesoro.

La libertà di scelta è cosa di cui avere molta cura, ammettono gli sponsor del nudge, ma (aggiungono, da esperti quali sono) non basta. E spiegano: fortunatamente, oggi le tecnostrutture sociali e comunicative permettono di predisporre programmi di intervento per migliorare la “navigabilità” della vita e della società, e per trovare la scelta giusta; i nudges funzionano come “mappe segnaletiche” che portano ciascuno alla destinazione che desidera. Ma la destinazione preferita da ciascuno non è che un prodotto essa stessa della “spinta gentile”: che piaccia o no, è questa che “costruisce la preferenza”. Tuttavia gli individui sono in fondo felici della spinta ricevuta e riconoscenti agli “spingitori”. Così Thaler e Sunstein.

Prendiamo atto del fatto che le “spinte gentili” sono nel mondo: attivate, con particolare incidenza, dai mercati, da grandi aziende, media e pubblicitari, da lobby e da esperti (consulenti finanziari, immobiliari, di coppia, medici, ecc.). E plasmano anche le informazioni che circolano nel mondo. Le “spinte gentili” sono attivate dagli stessi governi e dalle istituzioni pubbliche che, dicono Thaler e Sunstein, possiedono i requisiti democratici (consenso, trasparenza, rappresentanza, confronto pubblico ecc.), oltre che avvalersi di comitati tecnico-scientifici, e che pertanto esercitano “spinte” forse preferibili e più rassicuranti. Allora perché non aprire le porte alle “spinte gentili”, ai loro protagonisti e operatori? Già, perché no? Basta che verifichiamo le loro credenziali, e via. Dubbio: ma i cittadini di cui dicono i teorici del nudge hanno forse, a questo punto, magicamente acquisito la capacita di scegliere bene per quale “spinta gentile” o “architetto dell’ambiente” optare? O si dovranno rivolgere, anche per questo caso di scelta, agli “architetti della scelte e delle spinte gentili”?

Mettiamo pure da parte i dettagli della tecnica del nudge e le contraddizioni in cui cadono i suoi teorizzatori. Qui, a questo punto, preme trarre spunto dalla teoria per riflettere sulla “democrazia oggi” e su qualche aspetto delle sue attuali trasformazioni. La filosofia e la tecnica dei nudges sono un sintomo e un indicatore di come in effetti funziona oggi una società detta democratica. Oggi le “spinte gentili” spingono (gentilmente) verso un modo di vedere e di valutare la democrazia stessa in base a cui la sua giustificazione e legittimazione non è più misurata con il metro degli ideali (ossia il metro di “ cosa e come dovrebbe essere una democrazia per essere considerata tale”), ma piuttosto in base al modo in cui la democrazia funziona nella realtà: se per l’idealismo hegeliano “l’ideale è il reale”, ora con ben minore robustezza teoretica, si afferma che “è il reale a essere l’ideale”. C’è qualcosa di preoccupante in questa nuova tendenza? Sì. Questo scambio di funzione tra la dimensione ideale e la dimensione reale segna una chiusura degli orizzonti che ha il sapore di un neo-totalitarismo “dolce” in cui il potere strutturale, anziché esercitarsi tramite violenza e repressione dirette o censura esplicita, si esercita attraverso “spinte gentili” e “architettura delle scelte” che avviluppano il cittadino in una visione del mondo “a senso unico” che stride con l’idea della libertà democratica.

E qui il “navigato” Panglos, con il suo “viviamo nel migliore dei mondi possibili”, silenzia Candide. Oggi un Candide, invecchiato, getta la spugna. Qui, non altrove, sta il disagio profondo che dovrebbe inquietare le nostre società. A dispetto di quanto propagato dalle narrazioni dominanti.

La democrazia è qualcosa di enigmatico, persino di confuso: porta un “nome” che non cambia da secoli. Ma la “cosa” democrazia, a guardarla nella sua vicenda storica, è sempre diversa. La democrazia è una “cosa” polimorfica, che si trasforma nel tempo, mantenendo il medesimo nome. In fondo, verrebbe da dire, la democrazia è “cosa” indeterminata. Tanto che persino uno dei suoi valori fondanti, l’eguaglianza nella libertà e nell’autodeterminazione personale, ora è diventato un problema, non solo per gli altri o per la collettività, ma per se stessi. Sulla scorta dell’elogio della “spinta gentile” sembra che il cittadino chieda sempre più il supporto “amichevole” e paternalistico di chi lo governa e dei suoi esperti in progettazione di ambiente sociale e di architettura delle scelte. Forse è proprio così. Anni fa l’economista Fitoussi parlò, a proposito dell’Ue, di “dittatore benevolo”: quasi l’erede dei quel despota illuminato caro a Voltaire. Il tema della società dell’informazione digitalizzata e della conoscenza, dell’infodemia (e dell’infopenia), a ben vedere, hanno molto a che fare con tutto questo. Sarebbe ora di tornare a meditare sui nomi e sulle cose.

Epilogo. Sacrificare la libertà di pensiero?

Il problema è aperto e non risolto.

Se l’allargamento “indiscriminato” del “campo informativo” ci rende maggiormente soggetti a disorientamento e incertezza, il problema della “qualità” dell’informazione sollevato dal tema infodemia e della cura dell’infodemia si impone all’ordine del giorno. Stando al punto di vista della cultura dominante sembrerebbe quasi che l’allarme dell’infodemia voglia mettere in guardia dal fatto che stiamo passando da un oscurantismo associato a ignoranza e a difetto di informazioni a un oscurantismo dovuto a conoscenza e a grande disponibilità di informazione. Una parabola che, vista così, avrebbe del paradossale. La cura proposta, mirante a “controllare” l’informazione rallentandone e ostacolandone la circolazione, mette tuttavia a rischio direttamente (ad esempio tramite censura) e indirettamente (ad esempio tramite “spinte gentili”) la stessa libertà di pensiero e, con essa, la nostra capacità di giudizio. È un sacrificio che siamo pronti a correre?

Chi pensa che questo sia un sacrificio necessario è davvero pronto a fare questo sacrificio in prima persona, e quindi rinunciare alla propria libera convinzione secondo cui tale libertà di pensiero va limitata?

NOTA: Ringrazio Gilda Fusco con la quale ho avuto modo di discutere (animosamente) una precedente versione di questo contributo e che mi ha indotto a correggere o rivedere alcuni passaggi poco chiari o che talora andavano fuori strada. Resta sulle mie spalle la responsabilità per le idee e il libero pensiero che qui mi è riuscito di esprimere. Ma anche dei loro limiti.

Gaspare Nevola è professore ordinario di Scienza politica all’Università di Trento. Laureato in Filosofia all’Università di Torino.